Vino e Sudafrica: Barry Scholfield

Il vino italiano in Sudafrica: alla scoperta del primo Paese del “Nuovo Mondo” vitivinicolo

 

Quando si parla di “nuovo mondo” del vino ci si riferisce spesso a Stati Uniti o Australia, ma non si può tralasciare l’anello di congiunzione più evidente tra l’Europa e i Paesi dove il vino è arrivato in qualche modo “dopo”, incluso il vino italiano. Parliamo del Sudafrica, l’area che ha visto crescere forse la prima viticoltura di stampo europeo al di fuori dei confini del vecchio continente, e per raccontarci cos’è oggi il mercato sudafricano abbiamo intervistato un personaggio del calibro di Barry Scholfield, attualmente presidente del consiglio di amministrazione della South African Sommelier Association (SASA) e impegnato anche in Somm, per la supervisione e la gestione quotidiana delle attività, compresa la formazione dei sommelier. 

 

Nella foto al centro e con le braccia conserte troviamo Barri Scholfield. Scholfield è il presidente del consiglio di amministrazione della South African Sommelier Association (SASA). Barri Sholfield è inoltre impegnato impegnato anche in Somm, dove si occupa della supervisione e la gestione quotidiana delle attività, compresa la formazione dei sommelier.
Barry Scholfield presidente del CdA della South African Sommelier Association

 


Barry, com’è cambiato il mercato vinicolo sudafricano negli ultimi 20-30 anni?

L’industria del vino del Sud Africa è cambiata in modo quasi radicale negli ultimi 30 anni. Per via delle restrizioni internazionali e delle sanzioni al regime dell’apartheid siamo stati isolati come Paese fino ai primi anni ‘90, in quanto pochi produttori di vino avevano l’opportunità di assaggiare molti vini stranieri e ancora meno quella di viaggiare. Ciò ha comportato naturalmente un problema di ‘cantina nazionale’ che è stato ulteriormente aggravato ed esacerbato dal monopolio della produzione vinicola di grandi aziende e poche cooperative.

Contrariamente ai Paesi europei dove secoli di passaggi ereditari e di sussistenza agricola hanno portato a piccole parcelle di terreni che spesso hanno bisogno di essere fuse per formare imprese di dimensioni importanti, la maggior parte delle aziende del nuovo mondo sono frutto delle grandi proprietà di imprenditori agricoli. Queste, inoltre, o producono vini delle loro tenute o addirittura uniscono le loro risorse per formare cooperative dai volumi ancora più grandi. Queste ultime, come la maggior parte degli europei sanno, raramente producono vini di qualità, e gli altri fanno fatica ad evolversi. Il risultato netto di questi fattori consolidati nel tempo è stata un’industria del vino molto omogenea, con pichi catalizzatori per il cambiamento. Ma tutto è cambiato nel 1994.

Con l’accesso ai mercati internazionali e una nuova e ritrovata capacità di acquisire esperienze di lavoro in campo internazionale, è stata aperta una strada di innovazione per tutto il settore. Credo che oggi sarebbe molto difficile trovare un enologo anziano che non abbia lavorato in diverse aziende all’estero. Dove una volta si potevano trovare solo rossi molto simili tra loro, caratterizzati da frutta matura e fortemente trattati con trucioli integrati, e bianchi molto acidi, oggi si può trovare di tutto.

Si può passare da vini prodotti con fermentazioni spontanee a bassa gradazione alcolica, a Pinotage maturati in anfora di argilla, da Chenin Blanc molto ricchi e strutturati a blend di uve bianche e così via tante altre cose diverse.

I viticoltori all’avanguardia, che non possiedono terre, e i proprietari terrieri lungimiranti, stanno rapidamente unendo le forze, riducendo le rese e migliorando le pratiche vinicole.

Laddove una volta conferivano le loro uve indiscriminatamente a cooperative anonime, oggi il raccolto va a dare vita a una serie di nuovi marchi, ognuno desideroso di ritagliarsi la propria nicchia. E mentre i piccoli continuano ad alzare l’asticella, le grandi aziende sono state costrette a tenere il passo, rischiando altrimenti di diventare anonimi. Non c’è mai stato un momento più emozionante di questo per Cape Wine!”

 

Quali vini italiani arrivano in Sudafrica e cosa ne pensano i consumatori?

“Purtroppo arrivano pochi vini italiani, ma le cose stanno lentamente cambiando. Il Sudafrica è composto da molte culture e nonostante abbiamo molto in comune, spesso ci meravigliamo anche di quanto siamo diversi al nostro interno. Alcuni gruppi quando si parla di cibo e vino sono storicamente vicini ad una religiosità frugale, mentre altri sono estremamente consapevoli del marchio, al quale rimangono fedeli, e si fanno guidare da concetti legati allo status.

Tra questi estremi c’è un’intera gamma di consumatori, ma pochi di loro sono bevitori particolarmente avventurosi e la maggior parte è molto attenta al prezzo. A tutto questo bisogna aggiungere un palato abituato a grandi aromi e a tannini morbidi, un tasso di cambio che non va a nostro favore. Questo infatti mette fuori dalla portata dei più sia i viaggi internazionali che i beni importati, e diventa molto difficile convincere il consumatore medio a scambiare il suo ‘prevedibile’ Pinotage con un rosso acido, magari leggermente colorato e un nome che neppure riesce a pronunciare. Ciò nonostante non significa che sia tutto negativo.

C’è una classe media in crescita, con una disponibilità economica adeguata, e una neonata industria di sommelier che cerca disperatamente di espandersi. Ogni giovane e ambizioso professionista del vino che entra nella mischia, che si tratti di un uomo o di una donna, inevitabilmente cambierà il modo di pensare almeno di alcuni di quelli che ha intorno. Mentre continuiamo questa battaglia, sempre più spesso ormai i nostri amici e parenti sono costretti a sopportare le nostre divagazioni sulle virtù di viaggiare per il mondo attraverso un bicchiere di vino. Con un numero sempre maggiore di importatori sul mercato, infine, aumentano le offerte su misura provenienti da piccoli produttori europei, cosi che sta diventando sempre più facile accedervi (io personalmente ho accesso a sei importatori di vino italiano nel mio negozietto personale)”.

 

Sei un importante sommelier, cosa pensi dovrebbero fare i produttori italiani che vogliono esportare in Sud Africa? Ci sono regioni più conosciute? Il Lazio è presente in qualche modo?

Bisogna innanzitutto formare il cliente. Non necessariamente il consumatore ma gli acquirenti e i venditori di vino. Iniziative come per esempio Collisioni a Barolo sono state preziose nel creare almeno due ‘missionari’, io ed Esmé Groenewald, fortunatamente entrambi ricopriamo posizioni influenti qui in Sudafrica. Ma per entrare davvero nel mercato bisogna essere sicuri che i ragazzi e le ragazze sul campo sappiano consigliare i vostri vini e li conoscano davvero.

C’è però un vantaggio sottovalutato nella nostra ignoranza generale riguardo al vino italiano: persino il sommelier meno formato sarà in grado di nominare le maggiori regioni di produzione vinicola francese, ma se gli si chiede dell’Italia per la maggior parte raramente ti saprà spiegare la differenza tra Brunello e Friuli! Da noi il Barolo è conosciuto allo stesso modo di una qualsiasi cosa del Lazio, ovvero per niente, si tratta semplicemente di qualcosa di italiano. Quindi anche il Lazio del vino può scrivere la propria narrativa”.

 

Quando non lavori, cosa ti piace fare di più?

“Gestisco più attività e prima della pandemia avevo ancora una Organizzazione No Profit sotto la mia guida, quindi in realtà c’è poco tempo libero. Lavoro nell’enogastronomia, passo la vita a parlare di cibo e vino e quando non lavoro mi piace mangiare, bere vino e condividerlo con gli amici. La domenica è il giorno della famiglia, quindi cuciniamo e beviamo tutti insieme. Ma quando non sono in cucina, in cantina o in sala da pranzo mi piace stare lontano dalle persone e dai rumori. Il Sudafrica è benedetto dall’avere alcune delle più spettacolari bellezze naturali del mondo, con infiniti chilometri di piste da mountain bike ma anche facile accesso ai sentieri di montagna, dove posso correre eliminando le calorie in più e staccare dal rumore della vita quotidiana”.

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